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#1 EUROPE A CONFRONTO

  • Immagine del redattore: CTZN eu
    CTZN eu
  • 8 mar 2021
  • Tempo di lettura: 8 min

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Hi reader,

oggi voglio parlarti di Italia, Unione Europea e scelte. E il tema del rapporto fra Italia ed Unione Europea è qualcosa di profondamente complesso, condizionato da una serie di fattori difficili da quantificare e legato a doppio filo alla complicata storia tanto del nostro Paese quanto delle relazioni con i nostri vicini. L’Europa si fonda e si situa sul delicato equilibrio fra il regionale e l’internazionale, fra il nazionalismo e la globalizzazione, fra l’irriducibile diversità di popolazioni, usi e costumi del continente (e l’incancrenirsi di ostilità e faide tra i popoli europei) e la necessità storica di mettere da parte le proprie differenze e guardare a ciò che ci accomuna, per non venir divorati dalle altre potenze sullo scacchiere internazionale.


Tuttavia, sarebbe troppo declinare tutto ciò in un articolo. Per questo motivo, oggi voglio concentrarmi sull’analisi di qualcosa di specifico, ma che credo sia uno spunto vitale per capire dove l’integrazione europea ci sta portando e dove vogliamo che ci porti: l’analisi della principale differenza fra la risposta europea alla crisi finanziaria del 2008 e quella alla crisi tuttora in corso causata dal Covid-19. Perché proprio questo? Perché non è soltanto la differenza fra politiche di austerità e politiche espansionistiche, ma anche e soprattutto fra una visione mercantile dell’Europa, in cui ogni stato (e ogni cittadino) pensa principalmente al proprio tornaconto personale e a guadagnarci il più possibile finché la barca è ancora a galla, e una vera comunità europea, realmente integrata e capace di cooperare per il benessere collettivo perché capace di ragionare come un’unica entità.


Per capire la situazione dell’Italia e il suo rapporto con l’Europa nel 2008, possiamo osservare il debito pubblico italiano (il più alto fra i grandi Paesi dell’Unione e famoso tallone d’Achille del bel paese): se prendiamo i dati statistici sulla crescita del debito pubblico (in termini relativi rispetto al PIL), esso è, usando le parole di Enrico Letta, “gestibile fino alla metà degli anni 70”. Nel ventennio successivo, tuttavia, il debito pubblico italiano esplode: in 20 anni passa da circa 40% a circa 120% del PIL. Questo avviene sostanzialmente perché la politica aveva completamente perso il filo della serietà e si pensava di poter risolvere tutti i problemi del Paese con iniezioni di liquidità e misure assistenziali senza un progetto sistematico dietro, quindi indebitandosi irresponsabilmente alle spalle di una crescita economica che già stava scemando negli anni 70 e che non è più tornata.

All’inizio degli anni 90 accade però qualcosa sul fronte europeo: gli anni 1991-94 non sono solo gli anni di Tangentopoli e della fine della Prima Repubblica, ma anche un momento chiave nella storia europea, perché viene approvato ed entra in vigore il Trattato di Maastricht. Questo è forse il più importante dell’Unione Europea, perché forma il percorso di un’integrazione più forte sul breve periodo, con l’introduzione della moneta unica, e sul lungo periodo, con il progetto di un’unica politica estera e militare. L’Italia si trova ad accettare i criteri di Maastricht su deficit, debito e inflazione non solo per l’opportunità dell’euro, ma anche e soprattutto pensando che sia l’unico modo per smettere di fare debito in maniera sconsiderata (perché le regole ci costringevano ad essere più rigorosi). L’Italia, dunque, ratifica il trattato e comincia un percorso che arresta la crescita del debito principalmente tramite politiche di liberalizzazione e privatizzazione. Il debito comincia lentamente a scendere, tanto che quando il secondo governo Prodi termina a metà del 2008 (poche settimane dopo scoppierà la crisi finanziaria) viene consegnato un debito del 103%, con un tasso di crescita più basso del passato ma sempre alto se visto con gli occhi di oggi. L’Italia dimostra quindi che un contenimento del debito è possibile, e diventa un Paese “virtuoso” che tiene il deficit sotto il 3%. Questo miglioramento terminerà poi con la crisi, che farà crollare la crescita e quindi salire moltissimo il debito pubblico, arrivando al 130% pre-Covid (+30% in un decennio).


Tutto questo percorso si lega allo sviluppo del consenso degli italiani verso l’Europa: fino all’inizio degli anni 90, l’Italia è nei sondaggi il Paese più europeista dell’Unione, e nel 1993 il referendum consultivo (a larghissima partecipazione) passa con circa il 90% dei votanti a favore di una maggiore integrazione. Tuttavia, proprio in quel momento inizia un lento ma inesorabile processo di deterioramento della passione degli italiani per l’Europa, toccando il fondo nel marzo 2020 con i contrari all’Europa più numerosi dei favorevoli nei sondaggi. Questo avviene perché fino agli anni 90 l’Europa era un sogno, un mito, l’Europa delle opportunità che poteva solo migliorare la vita delle persone, mentre con l’entrata in vigore di Maastricht (voluto come abbiamo detto dalla stessa classe politica italiana per arginare il debito pubblico), il sogno europeo ha comportato anche delle rinunce e dei sacrifici. Ma questi non spiegano da soli il calo di consenso, costante anche di fronte alle innegabili opportunità che l’Europa ha continuato e continua tuttora ad offrire. La causa reale è stata un atteggiamento diffuso nelle nostre classi dirigenti che, per non risultare impopolari, hanno sempre dato la colpa all’Europa, additandola come un’entità che pretende sacrifici ingiustificati, e non hanno mai confessato agli italiani che il debito spaventoso contratto nei decenni passati andava arginato e che le politiche impopolari adottate in tal senso non erano per volere della tirannia Europea, ma per le necessità stesse del Paese e delle future generazioni. Tutti i sacrifici e i continui tagli sono stati raccontati come richieste e imposizioni dell’Europa, e questo ha chiaramente fatto calare il consenso per l’Unione.

Si arriva dunque alla crisi del 2008, e se da un lato il malcontento italiano nei confronti dell’Unione rimane esagerato, è anche vero che l’Europa risponde in maniera scomposta e disunita in un momento in cui soltanto con una risposta forte e organica si sarebbero potute evitare le ripercussioni che ancora oggi gravano sul nostro Paese. La prima vera risposta collettiva europea avviene nel 2012, con la creazione del MES e il famoso discorso di Mario Draghi (il whatever it takes, che implicava uno sforzo collettivo per mantenere l’unità dell’Europa e dell’euro senza lasciare nessuno indietro), ma nei quattro anni fra l’inizio della crisi e questa risposta collettiva l’azione europea si concentra sull’idea che sono i singoli stati a doversi dimostrare virtuosi, e che nessun condono può essere fatto dall’Unione nei confronti dei suoi membri più deboli. Il problema è sostanzialmente che un Paese già in crisi e strangolato dai mercati non può immediatamente allinearsi con dure politiche di austerity: è piuttosto necessario distinguere fra un intervento emergenziale, in cui lo Stato deve essere fatto respirare dandogli liquidità, e uno sul lungo periodo, in cui la nazione non più in difficoltà può seguire rigide politiche economiche per diventare più solida. Tuttavia, questa considerazione non sembra far breccia nelle idee nazionaliste di parti consistenti dell’UE – i famosi “Paesi frugali” (Austria, Danimarca, Paesi Bassi e Svezia), ma anche Regno Unito, Irlanda e Germania – che forti delle loro economie nazionali vogliono dilazionare il processo di integrazione optando per farsi bastare l’unione monetaria, senza spingere invece per un’unione fiscale ed economica molto più stretta – come invece vogliono paesi come Francia, Italia e Spagna.

Tutto questo porta a quattro anni di crisi totale che non viene risolta in maniera sistematica e che Spagna, Italia e Grecia pagano più duramente di tutti. L’Unione ne risulta più debole e meno affidabile per mercati e investimenti esteri (a danno, per inciso, anche dei Paesi che sposavano la posizione più rigorista), mentre la fiducia nelle istituzioni europee negli stati più colpiti comprensibilmente cala. La malagestione europea, la bancarotta greca, l’arroccamento degli stati frugali sulle loro posizioni quasi di superiorità morale: tutto crea sentimenti anti-europei, e il termine troika inizia ad assumere un connotato negativo persino tra chi ancora crede nel sogno europeo.

Ma quindi perché stavolta, nel 2020, di fronte alla crisi economica e sanitaria, la risposta dell’Europa è così diversa? Perché le politiche attuali, con il Next Generation EU (italianizzato in Recovery Fund), sono così diverse da quelle che ci sono state nel 2008?

Tutto sta nel nuovo equilibrio di forze tra i paesi dell’Unione nel dibattito per l’integrazione. La situazione è cambiata radicalmente sia per la Brexit, che ha di fatto eliminato dai giochi di potere europei uno fra i più agguerriti sostenitori dell’austerity, sia perché per la prima volta da tempo la presidenza della Commissione europea e del Consiglio dell’UE è tedesca. Ora sono rimasti isolati i “quattro frugali” e ha vinto la linea espansionistica, e per quanto a molti di noi costi ammetterlo, questa differenza è data dal cambio di posizione tedesca: la Germania è sempre stata e tuttora rimane una delle colonne portanti dell’Unione, e la sua influenza politica ed economica fa la differenza nelle scelte europee. Se nel 2008 la Germania aveva sposato la posizione più rigorista, ora assume la leadership dei progetti di liquidità (750 miliardi), con soldi nuovi e veramente europei presi ex novo e poi distribuiti a seconda dei bisogni (non trasferimenti fra Paesi che poi possono avvalersi di questi “prestiti” per far pressione e ottenere ciò che vogliono). Lo spread è oggi un non-problema proprio perché non bisogna chiedere soldi ai singoli indebitandosi a tassi altissimi, ma si può lavorare come un unico paese. L’Europa della solidarietà e dell’unione nasce veramente qui, e ci sta dimostrando che forse per la prima volta siamo davvero United in diversity (“Uniti nella diversità”, motto dell’Unione Europea).

Tuttavia, siamo ancora lontani dalla fine di questa crisi: chi governa in questi anni ha incredibili possibilità di rilanciare veramente l’Italia, ma bisogna essere seri e responsabili per non sprecare un’occasione del genere. Servono politiche che non sprechino i soldi facendoli piovere a cascata ma leghino investimenti a riforme così che questi creino occupazione e crescita economica. Questo significa anche scendere a patti con la propria situazione nell’Unione e con gli altri stati membri, e anche accettare una leadership tedesca naturale per il peso economico e politico della Germania anche a confronto con paesi come Cina e Russia (a patto che sia una leadership condivisa che tenga conto degli equilibri e sia attenta agli interessi europei, non tedeschi, perché nemmeno la Germania può prosperare dentro un’Europa debole).

La storia dell’Italia da Maastricht in poi è stata una storia di malagestione e di utilizzo dell’Europa come capro espiatorio, aiutando a creare sentimenti antieuropei ormai difficili da sradicare. Ora che l’Europa è sulla strada che volevamo, con la Germania che ha cambiato linea e il Regno Unito che non ostacola più l’integrazione, è necessario un cambio di rotta anche nella politica nazionale. Anche i partiti sovranisti che più di tutti hanno usato la narrazione dell’Europa-tiranno devono entrare nel dibattito europeo, anche solo per portare avanti la loro causa di una maggiore sovranità nazionale ma all’interno dell’Europa (quindi in modo più realistico e, di conseguenza, più sano per tutti). Alla fine di questa crisi avremo davvero la possibilità di costruire un percorso virtuoso, anche grazie a questo momento che per quanto buio ha dato vita ad un’Unione più forte. Bisogna però smettere di vedere i privilegi di vivere in Europa come qualcosa di dovuto concentrandosi solo sui difetti (reali e fittizi), ma anzi ritornare a pensare all’Europa come un’opportunità, qualcosa da meritare e apprezzare. Se non lo facciamo, potremmo perdere l’unica occasione che abbiamo per salvare il nostro Paese dal baratro in cui siamo finiti e da cui solo l’Europa ci può salvare.

E tu, reader, che cosa ne pensi? Questa nostra breve analisi ti convince? O ritieni che ci siano elementi che non abbiamo trattato e che vorresti fossero approfonditi? L’argomento è molto complesso, ma speriamo che questo articolo possa servire come spunto per farti riflettere sull’argomento e dirci la tua lasciando un commento qui, mandandoci un’e-mail con le tue riflessioni oppure commentando sotto al post relativo nei nostri profili social.

Grazie per l’attenzione,

Davide Bertot

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