#6 Un nuovo occhio sull'Universo
- CTZN eu
- 20 set 2022
- Tempo di lettura: 7 min
Hi reader,
con questo articolo vorremmo sollevare insieme a te il nostro sguardo dagli affanni quotidiani e rivolgerlo un po’ più in alto, verso il cielo e lo spazio infinito che ci sovrasta. Gaia Dimitri, studentessa di Ingegneria Aerospaziale al Politecnico di Torino, saprà trasmetterti la sua immensa passione per l’argomento portandoti a scoprire alcune delle immagini più emblematiche dell’Universo e gli strumenti utilizzati per catturare questi capolavori. Buona lettura!
È proprio vero che “l’essenziale è invisibile agli occhi”. Antoine de Saint-Exupéry si riferiva alla natura umana e al significato della vita, ma ciò vale anche per la scienza e, in particolare, per lo studio dell’universo. Fino ad oggi, infatti, conosciamo solo il 4% circa della materia del nostro universo e sono infinite le domande a cui non abbiamo ancora trovato una risposta. Questo però non vuol dire che non si possano creare dei mezzi capaci di aiutarci a vedere oltre, degli occhi più potenti dei nostri. È proprio per questo motivo che è nato il James Webb Space Telescope, lanciato in orbita il 25 dicembre 2021.
Ideato a metà degli anni '90, era considerato un progetto fantascientifico. Eppure, quasi vent’anni dopo, sfidando innumerevoli contrattempi, rimandi e incidenti, il JWST ha finalmente catturato le prime immagini della sua lunga lista di obiettivi.

La prima di queste, soprannominata dagli astronomi “Webb’s First Deep Field”, rappresenta l’ammasso di galassie SMACS 0723. Un deep field (campo profondo) è un’immagine che richiede una lunga esposizione per catturare la luce proveniente dalle zone più remote dello spazio, concentrandosi su una piccola area di cielo. Per capire quanto sia piccola questa porzione di spazio basta prendere un granello di sabbia e distendere il braccio: tutte le stelle e le galassie di questa prima foto sono racchiuse in una frazione di cielo grande quanto quel granello.
L’immagine è una composizione di più scatti sovrapposti e i colori variano a seconda del calore e della distanza di ogni corpo. Gli enti luminosi con le sei grandi punte sono stelle, tutti gli altri sono galassie. Queste punte sono una conseguenza dell’interazione tra la luce della stella con il sistema ottico del telescopio. Si può poi notare che alcune galassie al centro dell’immagine sono distorte. Ciò accade perché l’ammasso di galassie funziona come un grande telescopio naturale. Se infatti immaginiamo lo spazio come un grande tappeto elastico e pianeti, stelle e galassie come delle palline poggiate su di esso, è chiaro che le loro masse distorceranno il tappeto e, ovviamente, maggiore è la massa, maggiore è la distorsione. La luce dunque è piegata dall’ammasso di galassie e ingrandita. In questo scatto la luce della galassia più lontana risale a 13,1 miliardi di anni fa e non sarebbe stato possibile osservarla senza l’aiuto di questa distorsione naturale.
Confrontando lo scatto di debutto del James Webb (a destra) con un’immagine di Hubble (a sinistra) dello stesso obiettivo, sono evidenti il progresso tecnologico e le potenzialità del nostro nuovo “occhio”. Non solo l’immagine di JWST ha una risoluzione nettamente migliore, ma anche i tempi di esposizione necessari sono diminuiti esponenzialmente: se infatti Hubble aveva impiegato settimane per catturare il suo migliore deep field, James Webb ha impiegato solo 12,5 ore.

Si può poi ammirare un dettaglio della Nebulosa della Carena, agglomerato interstellare in cui la nascita delle stelle ci è stata nascosta a lungo da una cortina di gas e polvere. Si trova a 7600 anni luce da noi ed è una delle più luminose e grandi nebulose del nostro cielo. La regione di formazione stellare in foto è quella di NGC 3324. Grazie alla capacità del James Webb di vedere oltre questi strati polverosi, però, possiamo finalmente ammirare i primi stadi di formazione delle stelle, che individualmente durano solo dai 50.000 ai 100.000 anni.
L’essenziale dunque non sarà invisibile agli occhi del JWST che, osservando nell’infrarosso, riesce a vedere oltre le nebulose (nuvole interstellari di polvere e gas) permettendo alla comunità scientifica di raggiungere punti ancora più distanti dello spazio e, di conseguenza, del tempo. La luce che potremo osservare in futuro sarà infatti quella della formazione delle prime stelle e delle prime galassie e sarà possibile spingersi fino alle prime fasi dopo il Big Bang. Paragonando i nostri modelli ai dati ottenuti potremo capire come è nato il nostro Sistema Solare e osservarlo più in dettaglio. Per esempio, saremo in grado di vedere meglio gli anelli di Urano, Saturno e Giove, il calore rilasciato dai vulcani su Io (satellite di Giove) e dalle comete che si stanno avvicinando.
Tra gli scatti del JWST troviamo anche la Nebulosa Anello del Sud, grazie al lavoro di due strumenti in particolare: NIRCam (a sinistra), che si focalizza più sulla coppia di stelle e la loro luce, e MIRI (a destra), che invece predilige l’osservazione degli strati di polvere luminosa. Si potrà dunque studiare l’evoluzione della stella, come l’ambiente circostante è influenzato da essa e la sua morte. È stato inoltre proprio il James Webb a scoprire che questa nebulosa planetaria è stata prodotta non da una singola stella, bensì da due, con quella morente che orbita attorno alla più giovane, espellendo gas e polvere, che nel corso di migliaia di anni si dissiperanno nello spazio.
Un altro dei macro temi di ricerca sarà l’evoluzione delle galassie. Anche in questo caso le domande sono molteplici. Perché le galassie hanno una determinata struttura? Da quando? Perché molte hanno un buco nero al centro? Perché dalle nebulose nascono diversi tipi di stelle? Perché esistono le stelle binarie? Sarà anche possibile misurare con più precisione la velocità di espansione dell’universo e osservare i punti di calore dei pianeti che si stanno formando.

Il JWST ha anche osservato il Quintetto di Stephan, un gruppo di galassie, quattro delle quali interagiscono tra di loro gravitazionalmente, allungandosi e restringendosi a vicenda. Ci sono dettagli che prima non era possibile osservare, come i getti prodotti dai buchi neri al centro di ogni galassia.
Ma gli obiettivi del James Webb non sono finiti qui. Infatti potrà analizzare le atmosfere di pianeti extrasolari, individuando eventuali esopianeti, cioè pianeti potenzialmente abitabili. Sarà poi in grado di fornire nuove informazioni sulla materia oscura, sull’energia oscura e sul ciclo vitale dei buchi neri, ma, soprattutto, potrà fornire risposte a domande che non ci siamo ancora posti. Molte delle grandi scoperte rivoluzionarie sono appunto avvenute casualmente o come risposta ad una domanda di ricerca completamente diversa: la serendipità è fondamentale nella scienza.
Esiste dunque una lunga lista di domande di ricerca a cui possono competere tutte le 258 istituzioni e aziende appartenenti alle 15 nazioni che hanno collaborato al progetto.
Vediamo ora i quattro strumenti grazie ai quali il JWST riesce a osservare così in profondità. A differenza del telescopio Hubble, che lavora principalmente nell’ottico, questi si basano tutti sull’analisi del range degli infrarossi, con diverse specializzazioni, anche in base alla lunghezza d’onda analizzata.
Il primo tra questi è la NIRCam, cioè Near InfraRed Camera, che si concentra in particolare su lunghezze d’onda comprese tra 0,6 e 0,5 micrometri, prendendo in considerazione anche un po’ di luce visibile nella zona rosso-arancione. Lo spettro elettromagnetico è infatti composto da più lunghezze d’onda, di cui solo una piccola porzione corrisponde alla luce da noi visibile. I colori che l’occhio umano percepisce vanno dal rosso al violetto - come si può osservare quando un fascio di luce bianca attraversa un prisma, mentre per lunghezze d’onda maggiori troviamo gli infrarossi.
Il NIRSpec (Near InfraRed Spectrograph), invece, è uno spettrografo. Ogni elemento chimico lascia dietro di sé un’impronta diversa in base alle sue caratteristiche. Uno spettrografo come il NIRSpec quindi analizza la composizione della luce, per esempio quella riflessa dalle atmosfere dei pianeti, per ottenere gli spettri chimici di singoli target pre selezionati. Grazie a degli otturatori può dividere il suo campo visivo in sezioni, bloccando la luce proveniente dai settori che vuole ignorare, focalizzando tutta l’attenzione sul suo obiettivo.

Tra i primi risultati del JWST c’è infatti anche lo spettro dell’atmosfera di WASP-96 b, un pianeta exrasolare a 1150 anni luce da noi. Questo è lo spettro più dettagliato di un esopianeta mai prodotto. Dalla sua analisi si riconosce la firma chimica dell’acqua, indice della presenza di nuvole, che prima si pensava non fossero presenti sul pianeta.
NIRCam e NIRSpec non lavorano però da soli. MIRI (Mid Infrared Instrument) è lo strumento principale e il più freddo (con una temperatura di funzionamento di -267°C). È composto da una macchina fotografica e da uno spettrografo che osserva la regione intermedia degli infrarossi. È proprio grazie a MIRI che è possibile osservare attraverso le nebulose.
Ultimo, ma non meno importante, è NIRISS (Near Infrared Imager and Slitless Spectrograph), spettrografo vicino agli infrarossi, accompagnato dai sensori FGS (Fine Guidance Sensor) che permettono di orientare il telescopio stesso.
I dati raccolti dagli strumenti sono poi “tradotti” per essere compresi dall’occhio umano: ad ogni lunghezza d’onda degli infrarossi è stata assegnata una diversa lunghezza d’onda del visibile, permettendoci così di visualizzare delle immagini come quelle che ci sta già regalando in queste settimane.

Infine, vediamo la struttura del telescopio. Uno scudo termico grande quasi quanto un campo da tennis ha l’importante compito di proteggere i “Fantastici 4” dal calore del Sole e della Terra stessa, nonostante la distanza di 1 milione e mezzo di chilometri da essa. Gli strumenti infatti devono lavorare a temperature molto basse per non falsare i dati raccolti con il proprio calore o con quello proveniente dalla nostra stella e dal nostro pianeta.
Lo specchio primario, invece, ha un’area totale di 27 metri quadrati. Viste le dimensioni del telescopio, uno dei principi cardine del suo design è stato il rendere tutto il più leggero possibile e, soprattutto, pieghevole. Proprio per questo motivo lo specchio è composto da 18 singoli specchi esagonali, ciascuno accoppiato a dei motori che sono stati usati per orientarli una volta arrivati nello spazio. Lo scudo, invece, è stato piegato ben 12 volte, per poi essere disteso in orbita grazie a un sistema che ha eliminato eventuali grinze che avrebbero compromesso la stabilità.
Sarà dunque possibile smascherare l’essenziale? Il telescopio Hubble ha superato di quasi 15 anni la durata prevista per la sua missione e continua a stupirci con continue osservazioni e scoperte. Chissà se anche il JWST supererà le nostre aspettative. Solo il tempo, dunque, potrà fornire la risposta a questa domanda.
Però tu, reader, puoi dirmi che cosa ne pensi e rivolgermi le tue domande a riguardo all’indirizzo email ctzn.eu@gmail.com o sul profilo Instagram _ctzn.eu_.
Grazie per l’attenzione,
Gaia Dimitri
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