Ipertrofia della relazionalità: l'imperativo sociale dei social
- CTZN eu
- 19 apr 2022
- Tempo di lettura: 6 min
Hi reader,
questo è il primo di una serie di articoli sul tema delle relazioni digitali, nell’ambito del progetto Ri-Costituente di quest’anno che verte proprio su questo argomento (qui puoi trovare lo stesso articolo pubblicato sul sito ufficiale di Ri-Costituente).
Oggi iniziamo la nostra riflessione partendo da un quesito apparentemente semplice: perché dobbiamo usare i social?
In fondo, la maggior parte della storia umana si è svolta senza tutte le funzioni e le relazioni che ormai diamo per scontate nella nostra vita quotidiana. Benché la tecnologia abbia reso la nostra vita migliore per molti aspetti, i nostri genitori fino a tempi molto recenti sono sopravvissuti tranquillamente senza un contatto costante e invasivo nelle vite degli altri.
Eppure, oggi il pensiero di passare un’intera giornata, figurarsi un’intera vita, senza utilizzare il telefono e senza essere connessi col mondo, sembra impossibile anche ai più asociali di noi. Tutti siamo presenti online, e molti si costruiscono un’immagine ben precisa di sé, e pur avendo esperienze molto diverse il denominatore comune sembra essere l’impossibilità di fare a meno degli strumenti digitali.
Non sto parlando solo della dipendenza da social, che pure è una realtà estremamente preoccupante tra i più giovani, ma anche e soprattutto della grande trasformazione a livello collettivo che la nostra società ha subito dall’avvento di Internet e delle piattaforme digitali. Infatti, oggi non poter stare senza il proprio telefono è un dato di fatto, quasi un elemento fondante del nostro modello di vita comunitario, mentre l’accezione negativa ormai si è spostata al suo uso eccessivo.
E quando questa continua connessione diventa socialmente accettabile, la nostra presenza online aumenta, coinvolgendoci in un grande circolo vizioso che rende ancora più difficile abbandonare la relazione digitale senza sentirsi completamente fuori dal mondo. Rimanere senza connessione ci fa sentire estraniati, quasi in un limbo in cui la nostra vita ci scorre davanti ma ci sembra di non viverla perché non possiamo condividerla. Eppure è quella “la vita vera”, il tempo che si passa senza usare uno strumento elettronico che ormai è quasi un’estensione di noi stessi. E allora come si spiega questa ipertrofia della relazionalità, che rende tutto irreale se non si può postare?
Un elemento è certamente la naturale propensione dell’uomo per la socialità, e non serve scomodare Aristotele per sapere che siamo animali sociali. Nella relazione troviamo spesso il senso della vita nel mondo moderno, fluido e atomizzato, che non ha più le strutture e le rigidità del passato ma che proprio per questo ci lascia molto più soli, senza pietà per chi rimane indietro. E’ quindi chiaro che se esiste un modo per amplificare la quantità e la portata delle nostre relazioni, permettendoci di crearle e mantenerle senza essere limitati dalla presenza fisica dell’altro, una tale società ne sarà ben felice. Ed è qui la grande incomprensione: la tecnologia non è di per sé nociva, anzi ha grandi potenzialità per migliorare la vita delle persone, ma non si può risolvere la propria solitudine con un mondo fittizio e trovare nel digitale ciò che ci manca dentro. L’ipertrofia della relazionalità non è un problema dei social ma nostro, della società che individualmente e collettivamente non riesce a dare il giusto peso e i giusti paletti all’uso della tecnologia perché non capisce di essere lei stessa l’origine del problema.
Una società destrutturata lascia molta più libertà agli individui, che possono agire senza i precedenti vincoli fisici e sociali. Tuttavia, questi vincoli creavano dei legami che, per quanto imposti, davano senso al vivere comune e al proprio ruolo nella società. Il problema nasce infatti quando questi legami vengono meno, perché la società non dà agli individui gli strumenti per decidere cosa fare di questa nuova libertà. In una modernità che sprona alla competizione e alla performance a tutti i costi, creando forti sentimenti di inadeguatezza, la gente non è libera, è sola. E nella solitudine cerca in ogni modo di ricostruire i legami perduti aggrappandosi a ciò che nel quotidiano può alleviare il senso di isolamento, trovando un perfetto cerotto nell’immediatezza e frenesia del mondo virtuale.
Non stupisce allora che l’uso dei social sia sempre più diffuso e capillare. Tuttavia, così facendo il loro utilizzo diventa eccessivo e distorce la loro funzione, rendendoli peggiorativi nel lungo periodo per il benessere dei singoli e della comunità. Questo perché più è alta la quantità delle relazioni, più è difficile che anche la loro qualità sia elevata, impedendo così la formazione di connessioni significative con gli altri. E poiché siamo portati a competere in ogni aspetto della vita, anche lo strumento che avrebbe dovuto renderci meno soli finisce per fare l’opposto: ci sentiamo in dovere di essere presenti nel mondo virtuale e di mostrarci, ma nella paura di non essere abbastanza ci costruiamo un’immagine fittizia e compariamo le nostre insicurezze con le maschere perfette degli altri, alimentando i nostri disagi al posto che curarli.
E non è tutto: una grande caratteristica della realtà virtuale è anche la sua estrema customizzazione, ovvero la possibilità di costruirsi un’esperienza assolutamente unica, cosa facilitata dagli algoritmi dei social network che rendono la fruizione sempre più fluida e mirata per i nostri interessi. Tuttavia, a causa delle fragilità di fondo della nostra società, anche questa possibilità ci rende più soli. La nostra esperienza online diventa una echo chamber sempre più ristretta in cui, se guardiamo bene, possiamo vedere solo relazioni talmente filtrate da essere irreali. E questo ci porta a passare tutto il nostro tempo con le piattaforme digitali anziché con le persone, perdendo di vista il senso del contatto con gli altri. Zygmunt Bauman, grande sociologo polacco contemporaneo, parlava nel suo Retrotopia del “ritorno al grembo” (back to the womb) come una delle tendenze principali della nostra società fluida, un bisogno patologico di intimità e solipsismo che permetta agli individui di non doversi mai confrontare veramente con l’altro, per paura di cosa si potrebbe scoprire. Ecco, forse il processo di ipertrofia della relazionalità porta anche a questo (e il Covid di certo non ha aiutato), a isolarsi sempre di più proprio perché spaventati dal mondo che ci circonda. In un mondo che non ci appartiene e in cui spesso non pensiamo di avere un ruolo, chiudersi in un bozzolo di finta socialità che però non richiede nessuna riflessione su noi stessi può sembrarci una scappatoia. Ma è un meccanismo perverso, dato che in realtà siamo anche spaventati dal rimanere soli con noi stessi e proprio la solitudine ci aveva portato in primo luogo ad aumentare la nostra presenza online. Si forma un circolo vizioso, che porta dal bisogno di uscire dalla solitudine ad una finta socialità e ad una nuova e più profonda solitudine, legata a doppio filo alla nuova dipendenza dagli strumenti digitali che ci impedisce di renderci conto delle nostre mancanze.
Da questa riflessione viene fuori una visione piuttosto pessimistica, è vero, ma non priva di speranza. Sappiamo che spezzare il circolo vizioso sarà un processo lungo e complesso, che richiederà una revisione profonda del nostro modo di approcciarci agli strumenti digitali e alle altre persone, ma questo non significa ripudiare in toto la tecnologia. Rifiutare acriticamente tutto sarebbe sbagliato tanto quanto accettarlo, perché le relazioni digitali sono ormai, nel bene e nel male, una parte integrante della nostra vita. L’imperativo sociale dei social, infatti, renderebbe un distacco totale anacronistico e concretamente impossibile. Inoltre, anche senza considerare tutti coloro che degli strumenti tecnologici hanno fatto la propria professione, nessuno può negare che un loro uso corretto e sano ha effetti potenzialmente migliorativi sul tenore di vita delle persone. Siamo noi che dobbiamo cambiare, non la tecnologia, per cercare di eliminare le distorsioni e usare il nostro potere di scelta amplificato dal digitale in maniera costruttiva.
Non proibire la fruizione delle piattaforme digitali per schermarsi dai rischi, quindi, ma lavorare per cambiare il nostro approccio ad esse e creare una miglior equilibrio fra relazioni digitali e reali. Per fare questo, tuttavia, il primo passo è comprendere che è il modo in cui trattiamo noi stessi e gli altri a fare la differenza, non lo strumento che utilizziamo per veicolare i nostri messaggi. Bisogna reinventare e valorizzare la relazione con se stessi e con gli altri prima di cercare di cambiare le relazioni digitali, in un processo di miglioramento costante che non possiamo mai dare per scontato, ma per il quale dobbiamo continuare a lavorare ripartendo ogni giorno da noi.
E tu, reader, che cosa ne pensi? Questa nostra breve analisi ti convince? O ritieni che ci siano elementi che non abbiamo trattato o visioni che non abbiamo considerato? L’argomento è molto complesso, e ti consigliamo di rimanere aggiornato per leggere i prossimi pezzi. Ma speriamo comunque che questo articolo possa servire come spunto per farti riflettere sull’argomento e dirci la tua lasciando un commento qui, mandandoci un’e-mail con le tue riflessioni oppure commentando sotto al post relativo nei nostri profili social.
Grazie per l’attenzione,
Davide Bertot
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