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#1 DUE PAROLE: IL SETTORE FISCALE

  • Immagine del redattore: CTZN eu
    CTZN eu
  • 19 apr 2021
  • Tempo di lettura: 7 min

Hi reader,

l’articolo di oggi prende vita dalle domande poste al mio datore di lavoro e a sua moglie, i quali da molti anni gestiscono insieme uno studio di consulenza fiscale. La mia intenzione è quella di seguire il trascorrere del tempo, da quando hanno cominciato negli anni 80 fino ad oggi, per poter confrontare la situazione di allora con quella attuale. L’intervista ha toccato diversi argomenti importanti e spero che troverai piacevole e intuitivo il modo in cui ho voluto organizzarli.


Lei ragioniera presso un altro studio di commercialisti, lui appena terminati gli studi presso un istituto tecnico industriale: così i nostri ospiti cominciano la loro attività nella prima metà degli anni 80. Partono davvero da zero, i genitori sono di umili origini e soprattutto lui nonostante sia affascinato dalla materia deve studiarla per poterla esercitare. A ripensarci, non sanno come sono riusciti a convincere i primi clienti a rivolgersi a loro. Forse, dicono, la fiducia che ispiravano ha giocato un ruolo importante, una fiducia che poi è stata corrisposta dalla loro competenza e professionalità. Fiducia, competenza e professionalità. In quale altro ambiente vorremmo trovare questi tre pilastri? In tutti, penserai tu, e io sicuramente vorrei trovarli almeno in Parlamento e nella Pubblica Amministrazione. Del Parlamento tornerò a parlarne più avanti, ora vorrei concentrarmi sulla PA e in particolare sull’Agenzia delle Entrate (AdE). Alla domanda “c’è per caso una mancanza di fiducia da parte dello Stato nei confronti dei contribuenti?”, il mio datore di lavoro ha riso affermando che di fatto l’AdE parte dal presupposto che tutti i contribuenti siano degli evasori (anche se questo pregiudizio sta diminuendo con le nuove generazioni). In un mondo ideale saremmo tutti cittadini onesti e ottemperanti agli obblighi fiscali, ma viviamo in Italia e la fiducia non è mai stata alla base delle relazioni tra Stato e privati, sin dall’inizio della nostra storia nazionale. Non che i contribuenti vengano molto incentivati a seguire le norme fiscali: l’Italia è un Paese lento e gli incentivi a rispettare le regole sono spesso inferiori ai guadagni a trasgredirle, quindi chi vuole evadere riesce sempre a convincere gli altri ad assecondarlo e a guadagnarci qualcosa nell’immediato invece che sperare in una deduzione futura. Un happy ending per tutti, o quasi.


Ma ritorniamo agli anni 80, con il piccolo studio che continua ad acquisire nuovi clienti e che alla fine di quegli anni prende nuovi uffici per via dei dossier e dei registri che occupano molto spazio. Da nativa digitale trovo che ci sia dell’incredibile: a quei tempi era tutto svolto a mano. I registri, le fatture, le dichiarazioni erano redatti a mano e consegnati di persona. Ma la digitalizzazione non tarda ad arrivare, e così all’inizio degli anni 90 i protagonisti di questa storia comprano il primo computer con relativo software gestionale.

Tuttavia, se a livello personale si è diventati più produttivi ed efficienti grazie alle nuove tecnologie, paradossalmente sembra che la digitalizzazione abbia peggiorato i rapporti con lo Stato. Ciò accade perché in questi 30 anni l’AdE, grazie ai programmi informatici che permettono di analizzare i dati, ha potuto e può immagazzinarne e gestirne una quantità sempre più elevata e ha iniziato a richiederne sempre di più ai privati. Secondo i nostri ospiti, però, la disorganizzazione e l’inefficienza della PA è rimasta la stessa, e quindi la richiesta di sempre più informazioni rende la vita impossibile ai commercialisti, che devono stare dietro a molte più scadenze e molti più moduli da compilare, senza portare un beneficio effettivo ai contribuenti. Questi ultimi, infatti, non hanno le capacità, la pazienza o il tempo di stare dietro a questa enorme mole di dati: ad esempio, gran parte delle dichiarazioni precompilate (ultima trovata dell’AdE) necessita comunque della verifica del contribuente, vanificandone lo scopo e aumentando anziché alleggerire il lavoro ai commercialisti e la parcella ai loro clienti. Inoltre, l’Italia non è molto ferrata in materia di nuove tecnologie: la popolazione italiana è una delle più anziane d’Europa, quindi molte persone non sanno nemmeno interagire con un computer, figurarsi compilare moduli su moduli online o controllare autonomamente le proprie dichiarazioni precompilate. Tutto questo fa chiaramente dubitare della necessità di offrire servizi del genere e mette in mostra l’incomprensione delle esigenze dei cittadini da parte dei legislatori.


Secondo te, reader, cos’altro è cambiato in questi 30 anni? I nostri ospiti possono dirti che cosa non è cambiato: la necessità di riformare il sistema fiscale una volta per tutte in modo organico e lungimirante. Sì, perché nonostante lo slogan “meno tasse” sia un cavallo di battaglia di moltissime parti politiche nelle campagne elettorali (e da tempo immemore), le riforme che vengono effettuate hanno un unico scopo: fare cassa. Cercare di incrementare le entrate dello Stato non è per forza negativo. Tuttavia, se dietro non c’è una visione a lungo termine ma soltanto la necessità di racimolare qualche soldo in più dalle tasche dei contribuenti (anche a costo di metterli in difficoltà con norme volutamente complicate), e se questi interventi vengono sempre attuati in emergenza, è chiaro che non si vede nessuna soluzione all’orizzonte. Come se non bastasse, lo stato emergenziale del lavoro si trasferisce anche ai professionisti del settore, che vivono in una situazione di stress continuo e non possono più essere tranquilli nel rapporto con i loro clienti, ciò che rendeva affascinante la materia quando i nostri ospiti hanno cominciato.


Come ci siamo ritrovati in questo caos? Gli intervistati mi hanno fatto notare come ci sia una sostanziale ignoranza in materia da parte dei legislatori nelle commissioni parlamentari che si occupano di queste norme. Facciamo un passo indietro: in Parlamento non tutti si occupano di redigere le norme, ma solo quelli che rientrano nelle commissioni. Ma come vengono scelti? Qui sta il trucco. In Parlamento ci sono ovviamente professionisti del settore fiscale e vengono anche inseriti nelle commissioni, ma una volta dentro si trovano in minoranza o comunque danno più importanza a trasmettere l’ideologia di partito nella legge. Ergo, in Parlamento la componente ideologica prevale sulla competenza e la praticità. Sembra che quando si arriva al potere, per quanto uno voglia migliorare il sistema e abbia a cuore il Paese, entrino in gioco altri interessi, come ad esempio l’interesse a seguire le linee del partito di appartenenza perché altrimenti le proprie possibilità di carriera potrebbero essere compromesse. Tutto questo prevale sulla buona politica, purtroppo.

I nostri ospiti mi confessano che sono delusi ma ancora sperano di vedere un giorno un governo che gestisca la cosa con serietà, e io ti chiedo, reader: è l’Italia davvero un luogo così impossibile da cambiare, in cui ci si deve affidare passivamente alla sorte sperando nella benevolenza di un governo? O bisognerebbe invece avere la possibilità di eleggere persone competenti che lavorino non per i meccanismi di partito ma per migliorare la situazione del nostro Paese?


Non è finita qui. Se c’è una così grande incapacità di gestire e comprendere i meccanismi del settore fiscale, guardare all’ignoranza in Parlamento non è che la punta dell’iceberg: il contribuente medio di tributi e scadenze non sa né capisce nulla, e questa ignoranza generalizzata nella popolazione è senz'altro colpa delle lacune del nostro sistema scolastico. Finita la scuola, la stragrande maggioranza dei giovani contribuenti è totalmente digiuna di qualunque conoscenza in materia. Gli unici ad avere qualche possibilità sono i “fortunati”, coloro che hanno frequentato gli istituti tecnici economici o quei pochi che hanno avuto insegnanti lungimiranti e di buona volontà, che hanno sacrificato ore della propria materia per dare qualche nozione basilare ai futuri cittadini. Ma, anche in questo caso, non bisognerebbe sentirsi fortunati ad aver imparato qualcosa di fondamentale per la propria vita, e certamente non bisognerebbe affidare l’educazione delle giovani generazioni alla sorte. Infatti, benché il nostro sistema scolastico così impostato ritenga materie come economia tranquillamente ignorabili, tutti i neo-contribuenti dovrebbero avere il diritto di conoscere almeno le basi di come dovranno gestire le proprie finanze in un mondo che non ammette ignoranza.


Arrivati alla fine della nostra discussione, gli ospiti ed io ci siamo lasciati con la seguente domanda: che cosa fare per cambiare questa situazione?

Innanzitutto, noi di CTZN.eu abbiamo già parlato in un altro articolo di una nostra idea di riforma scolastica (che puoi trovare qui) e tra le varie proposte spiccava quella di aggiungere fra le materie obbligatorie diritto/educazione civica (che infatti da quest’anno scolastico 2020/2021 lo è diventata). Ora ci sentiamo di aggiungere (idea sostenuta anche dai protagonisti dell’intervista) che bisogna rendere obbligatoria per tutti una base di educazione economica e di scienze delle finanze, per poter formare cittadini consapevoli del sistema economico e fiscale in cui andranno a vivere e del fatto che pagare le tasse per far funzionare lo Stato è un bene per tutti. Occorre un insegnamento specifico e sistematico fornito da professionisti del mestiere, che possano mostrare agli studenti come la teoria si realizza in casi pratici e legati all’attualità. Questa nuova materia dovrebbe essere insegnata a partire dalle elementari, inizialmente a livello basilare e congiunto con educazione civica e successivamente separato in una materia specifica insegnata fino alla fine delle superiori.

Inoltre, riteniamo che la mancanza di competenze dei legislatori sia una cosa molto grave che va discussa e risolta. Ci si dovrebbe poter fidare dei nostri rappresentanti i quali, anziché piegarsi agli interessi di partito, dovrebbero avere a cuore l’interesse e il benessere dei cittadini. Ci sono molti cambiamenti che possono essere fatti solo a livello istituzionale, ma ci sono altrettante azioni concrete che possiamo fare noi cittadini in prima persona: far sentire la nostra voce chiedendo ai legislatori una ridiscussione seria della distribuzione dei ruoli all’interno del Parlamento; seguire le notizie di attualità e individuare i problemi del Paese, discutendone con chi ci sta attorno; firmare petizioni online che richiedano riforme costruttive in tal senso.

Non sai da dove cominciare? In realtà hai già iniziato, leggendo questo articolo e informandoti sulla questione. Per continuare puoi condividere questa analisi e il tuo pensiero con gli altri e firmare questa petizione che richiede una riforma del sistema elettorale.


Che cosa ne pensi di questa intervista, reader? Vorresti leggerne altre? Quali sono i punti che ti hanno colpito di più o che ti hanno lasciato/a più perplesso/a?

Faccelo sapere lasciando un commento qui, mandandoci un’e-mail con le tue riflessioni oppure commentando sotto al post relativo nei nostri profili social.


Grazie per l’attenzione,


Maria Chiara Bodda

Mail: ctzn.eu@gmail.com

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Twitter: @ctzn_eu

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