#2 GLI ORRORI DELLA DEMOCRAZIA DIGITALE: REALTA’ O DISTOPIA?
- CTZN eu
- 6 apr 2021
- Tempo di lettura: 7 min
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Hi reader,
questa è il secondo articolo sull’argomento della democrazia digitale, che è la versione adattata di un elaborato che ho scritto come studente di laurea triennale.
Nel primo articolo (se non l’hai ancora letto, puoi trovarlo qui) abbiamo parlato delle meraviglie della democrazia digitale, intesa come l’implementazione delle tecnologie di informazione e comunicazione per far progredire, rafforzare e ampliare i processi democratici. Abbiamo detto che, anche se istituzionalizzare gli sviluppi tecnologici e i processi sociali che hanno aiutato a creare può sembrare un’impresa molto promettente, ci sono alcuni effetti preoccupanti che possono essere visti dappertutto intorno a noi e che non possono essere ignorati se vogliamo davvero sfruttare la tecnologia digitale e non essere sfruttati da essa.
Oggi analizziamo l’altro lato della medaglia: molti sostengono che la digitalizzazione sta amplificando tutti i peggiori vizi umani, mentre i benefici sono troppo volatili per essere apprezzati, e iniziano a fare pronostici di catastrofe imminente. I social media diffondono violenza come cultura, caos come emancipazione, e poiché quelli che erano i guardiani della stabilità e della democrazia hanno perso molto del loro potere di controllo sulla diffusione di contenuti e idee, la tecnologia digitale è divenuta per molti il nemico più minaccioso della democrazia per come la conosciamo. L’esempio più lampante è l’ascesa di Donald Trump come presidente degli Stati Uniti: grazie ai social media, è stato in grado di “aggirare i tradizionali custodi della politica americana,” dal momento che ha potuto trasmettere i suoi messaggi direttamente ai suoi seguaci. Nella sua campagna, Trump ha largamente utilizzato i più acclamati sviluppi tecnologici, accompagnati da una scadente retorica populista, per conquistare una larga porzione della popolazione americana. La sua strategia e i suoi metodi sembravano ridicoli, e l’élite di intellettuali con il compito di predire i risultati elettorali del 2016, presi com’erano nelle proprie echo chambers, credevano che fosse impossibile per una figura tanto grottesca diventare il “leader del mondo libero” (un termine che è stato giustamente contestato negli ultimi quattro anni). Tuttavia, questo è esattamente ciò che è successo: nello stupore generale, Donald Trump ha vinto le elezioni americane, supportato da un folto gruppo di persone che erano incapaci di cogliere la complessità della situazione nella nube immensa di opinioni e informazioni contrastanti che è Internet.
Infatti, questa è una delle preoccupazioni principali degli oppositori alla democrazia digitale: il caos. In un mondo sempre più burocratizzato, il Far West virtuale che ancora è Internet può sembrare una boccata d’aria fresca, ma il rischio di una discesa nel caos è sempre dietro l’angolo. Nei momenti di crisi, quando sono necessarie più che mai la chiarezza e la capacità di agire in modo coordinato, il Web, che per inciso è anche il posto dove la maggior parte delle persone va a cercare le risposte a tutte le loro domande, è invece un luogo caotico e assordante. Seguendo la “moda” della pandemia di Covid-19, il neologismo “infodemia” è stato coniato per indicare la “circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento per la difficoltà di individuare fonti affidabili.” Questo fenomeno di sovraccarico cognitivo è causato dal declino della fede nei “custodi” tradizionali dell’informazione e da una crescita (eccessiva) di fiducia verso le fonti autoselezionate. Di conseguenza, viene creato un circolo vizioso: da un lato, tutti i media concentrano la loro comunicazione più o meno sul clickbait e, nell’impossibilità di capire quali informazioni siano quelle vere (o almeno quelle ufficiali), la persona che grida più forte è ascoltata più delle altre; dall’altro, la cacofonia di fonti contrastanti porta le persone a informarsi solo attraverso i loro pregiudizi. A questo punto, non c’è nemmeno bisogno che gli outsiders della politica abbiano un reale carisma per essere ascoltati e destabilizzare lo status quo: in un processo chiamato auto-polarizzazione, individui isolati cercano solo notizie che confermano i loro pregiudizi, e così facendo “non solamente non sono in grado di sviluppare un punto di vista che si discosti da quello delle ‘fedi’ di appartenenza, ma anche e soprattutto alimentano la macchina mediatica dell’infodemia”. Tutto ciò non solo contrasta l’ideale di rafforzare e rendere più autentica la democrazia, ma se istituzionalizzato può creare gravi danni alle democrazie che abbiamo già, portando il nostro mondo più vicino al precipitare nel caos più totale. A meno che la tecnologia digitale non sia controllata.
E qui abbiamo la seconda corrente principale fra gli oppositori alla democrazia digitale: mentre il primo gruppo è preoccupato dal caos e dall’anarchia insiti nella rivoluzione elettronica, il secondo, paradossalmente (o paranoicamente?) teme un futuro dove la tecnologia digitale è sfruttata da uno Stato totalitario per monitorare tutti i suoi cittadini, in un mondo senza privacy e nel quale nessuno può comportarsi o pensare diversamente. Mentre per la maggior parte delle persone la privacy non è un vero problema finché è violata da compagnie private per migliorare il comfort dei consumatori, quando sono gli Stati ad interessarsene e a sconfinare nella vita privata delle persone l’opinione pubblica inizia a farsi prendere dal panico. Abbiamo visto la forza di questa paura quando, anche di fronte ad una pandemia globale come il Covid-19, discussioni e proteste si sono sprecate in molti Paesi occidentali, i cui cittadini hanno (giustamente) guardato con scetticismo e timore ai primi tentativi dell’UE e degli USA di adottare un sistema di monitoraggio simile a quello delle Tigri asiatiche. Queste ultime, infatti, hanno violato la privacy degli individui, con le autorità che divulgavano informazioni private scatenando episodi di linciaggio contro concittadini per comportamenti “inappropriati” o “immorali” (ad esempio: https://www.repubblica.it/esteri/2020/03/06/news/coronavirus_dignita_privacy_corea_del_sud_chat_sms_messaggi_contagi-250414120/). Al contrario, almeno nei Paesi europei, il sistema di monitoraggio adottato dopo le proteste è stato su base volontaria e attento alla privacy (anche se è poi stato molto meno utilizzato o efficace di quello degli Stati asiatici).
Oltretutto, se pensiamo che questa sia solo una fase e che l’effetto globalizzante della digitalizzazione prevarrà nel lungo periodo, dobbiamo riconoscere che, almeno per ora, Internet non è così globalizzante come pensavamo: semplicemente proibendo app e siti e quindi isolando la sua popolazione dalle correnti principali del mondo digitale, uno Stato può ancora fermare facilmente il processo di globalizzazione. L’abbiamo visto di fronte ai nostri occhi, con l’abolizione della popolare app cinese “TikTok” da India e Stati Uniti, o la recente tendenza di vari paesi, come Russia e India, a “staccare Internet” ogni volta che ci sono proteste nel paese per impedire ai manifestanti di organizzarsi e mostrare le vicende al mondo. Mentre scrivo i leader dell’Unione Europea stanno discutendo la possibilità di implementare un processo di trasformazione per raggiungere la sovranità digitale a livello europeo, come risposta alla rivalità fra Stati Uniti e Cina e ad un mondo di Stati che chiudono frontiere anche nello spazio digitale.
Tuttavia, queste terrificanti idee della digitalizzazione come strumento di caos o oppressione sono esagerate e prevenute tanto quanto quelle ingenue di chi non vede (o non vuole vedere) le conseguenze problematiche della nostra transizione ad un mondo digitale. Non dovremmo chiuderci al futuro perché, da un punto di vista più realistico, noi stiamo diventando un mondo digitale, e non abbiamo il potere di fermare questa evoluzione ormai in corso. Tutto ciò che otterremmo con una strategia così anacronistica sarebbe essere lasciati indietro da un mondo che sta cambiando ad un ritmo esponenziale, senza pietà per coloro che sono ancorati ad un passato perduto (e forse mai esistito). Al contrario, dobbiamo assumere un ruolo attivo nel monitorare i cambiamenti del nostro mondo, dal momento che c’è la necessità di guidare la tecnologia (anziché semplicemente rifiutarla) per impedire che altri, con intenti più malevoli o egoistici, si dichiarino guide del nuovo mondo perché noi non ci siamo fatti avanti.
Esempio di un approccio più proattivo è l’Unione Europea che ha fatto molto parlare di sé con la sua politica di sempre maggiore regolamentazione tecnologica, ad esempio focalizzandosi sul far implementare ad aziende come Facebook, Google e Twitter un codice di condotta sulla disinformazione. Al contempo, la Banca Centrale Europea sta promuovendo una progressiva digitalizzazione dell’euro, che garantirebbe ai cittadini nell’area euro più scelte su come pagare e renderebbe più facile per loro farlo incrementando l’inclusione finanziaria. Questi sono solo alcuni esempi di ciò che è già stato fatto nel campo della democrazia digitale, ma queste iniziative sono ancora troppo distanti fra loro e ancora non esiste una strategia coerente e comprensiva per promuovere la partecipazione digitale. Perciò, c’è un notevole margine di miglioramento: potremmo invogliare i cittadini a prendere parte ai processi decisionali online, per esempio includendo forme di crowdsourcing digitale; potremmo rafforzare il carattere rappresentativo delle istituzioni democratiche facilitando la partecipazione dei cittadini nell’elaborazione delle politiche, dal momento che “queste innovazioni possono alimentare la partecipazione e la cittadinanza attiva, coinvolgere i giovani nei processi decisionali, generare nuove idee e politiche e rafforzare la fiducia e la legittimità della politica”; potremmo “organizzare forum elettronici aperti, dove i cittadini potrebbero al contempo offrire i propri spunti e rispondere a quelli di altri”. C’è molto lavoro da fare, e molti sforzi da compiere, ma la ricompensa è un’autentica democrazia digitale, guidata dai fondamentali principi democratici per costruire e ricostruire la nostra società per il meglio.
Un problema rimane irrisolto: è più importante un Internet libero e globalizzante, ma con elementi profondamente destabilizzanti perché senza regole, o un Internet regolamentato e controllato, che può proteggere le democrazie liberali ma anche ostacolare le meravigliose potenzialità del Web? La risposta, come tutta la mia analisi in questi articoli ha provato a dimostrare, va cercata in un equilibrio moderato: non deve tornare il monopolio comunicativo di pochi, ma Internet non può nemmeno continuare a svilupparsi senza vincoli. La soluzione non è un nuovo tipo di censura digitale, perché a quel punto nulla sarebbe più calzante che la classica domanda quis custodiet ipsos custodes? (“chi sorveglierà i sorveglianti?”), e nemmeno un ideale sofista per cui, dato che non ci sono fatti ma solo opinioni, nessuno ha diritto di imporre limiti a nessun altro. Dobbiamo invece affrontare il problema creando una narrativa nuova e costruttiva, un’alternativa plausibile che permetta a chi possiede le competenze di essere più che un semplice spettatore e che sfrutti il potenziale degli strumenti digitali non per condannare o censurare, ma per inquadrare e contestualizzare le idee più destabilizzanti presenti su Internet.
In conclusione, sia un’adesione acritica che un rifiuto acritico della democrazia digitale sono pericolosi, dato che il primo potrebbe portarci ad ignorare gli effetti potenzialmente catastrofici dell’era di Internet, mentre il secondo potrebbe impedirci di rimanere saldi alla guida dell’attuale rivoluzione digitale. Pertanto, non ci dovrebbe essere un movimento così immediato verso o contro la democrazia digitale, bensì una fusione graduale della nostra vita politica con le nuove e migliorate forme di comunicazione e partecipazione, abbastanza graduale da permetterci di assorbire tali avanzamenti tecnologici senza smarrire la via che le nostre democrazie liberali stanno seguendo (almeno in principio).
Ora tocca a te: sei d'accordo con questa analisi? Se sì, cosa pensi che dovremmo fare per migliorare la situazione e prevenire le possibili complicazioni legate alla democrazia digitale? Altrimenti, cosa pensi dell’argomento e in che modo la nostra analisi può essere modificata/migliorata?
Faccelo sapere lasciando un commento qui, mandandoci un’e-mail con le tue riflessioni oppure commentando sotto al post relativo nei nostri profili social.
Grazie per l’attenzione,
Davide Bertot
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P.S. Per vedere l’elaborato originale (in inglese) e le fonti da cui sono tratte le citazioni che trovi in questo articolo, puoi andare su questo link.
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